i stand exposed
gaetano mainenti
Gaetano Mainenti, I Stand Exposed (particolare), 2011, tessuto sezionato e ricomposto, ricamo, corde e legno,180x237cm
I stand exposed, scrisse Ezra Pound ad un'amica nel 1913. Il giovane poeta scherniva i colleghi che si trinceravano dietro ad affermazioni di poetica timide, conformiste. Al contrario Pound intendeva la propria opera come un metaforico ergersi in piedi (I stand) in difesa delle proprie idee, allo scoperto (exposed), pronto ai colpi delle critiche, anzi quasi in feroce impazienza di ricerverne, perché ogni critica è tassello di un dialogo, è scintilla di relazione umana.
Gaetano Mainenti si offre a noi allo stesso modo: è lui stesso che osserviamo nella mappa intessuta, distesa e appesa in fondo alla sala, il cui ordito è costruito secondo rapporti armonici basati sulle misure del corpo dell'autore. La metafora di Pound si scioglie ed è traslata nella lingua dei numeri. Il riferimento all'atteggiamento del poeta ci pone dunque nell'aspettativa di manifeste dichiarazioni poetiche mentre gioca con l'ambiguità del termine esposto (exposed) che in italiano riunisce l'idea del porsi allo scoperto e di fare di se stesso un oggetto da esposizione, da fruire esteticamente.
Seguiamo la traccia delle linee, cucite come a creare lo stendardo di un'idea, e ragioniamo su una possibilità di rappresentazione dell'individuo che offre perfetta corrispondenza tra contenuto e forma; ma si tratta di un'illusione, perché la realizzazione dell'idea sancisce l'impossibilità di questa perfezione: il tessuto, materia mobile e imprecisa nella sua organicità, impedisce l'esattezza del sogno matematico.
La presenza di Mainenti in quest'opera è progettuale, oltre ad essere la matrice informante, mentre il lento lavoro di realizzazione è affidato ad un'allieva, Micaela Leonardi, che ci rende partecipe della dimensione temporale del fare ricamando le ore impiegate sulla trama del tessuto.
Ogni opera esposta è frutto di una relazione, di un rapporto amicale ed educativo, ogni opera è il risultato, anzi è un momento di un dialogo, un punto del divenire di un colloquio fermato e reso tangibile in un oggetto che riluce quindi non solo della cifra stilistica di Mainenti, dell'eleganza ammaliatrice del suo tratto, ma anche grazie alle vibrazioni di altri pensieri, altre mani che hanno contribuito a dare forma all'opera.
Gaetano Mainenti insegna all'Accademia di Belle Arti di Venezia, e forse è proprio il mestiere di educatore a far nascere in lui il senso della relazione con il prossimo come strumento di creazione. Il prossimo nel senso etimologico della parola: non si tratta di rapporti virtuali con individui separati nello spazio e connessi con i fragili fili della comunicazione telematica, ma persone che partecipano dello stesso tessuto geografico, che condividono con Mainenti lo spazio dove la sua vita e le sue ricerche artistiche si sviluppano giorno per giorno, nel lento costruire delle relazioni umane.
Il progetto espositivo si fa quindi manifesto di una volontà di ritornare a costruire dal locale, dalla rete tangibile e reale.
L'espansione irradia dalla concentrazione e non viceversa: lo stesso pensiero sembra prendere forma nella statuetta, posta di fronte al telo ad una distanza calibrata dai rapporti armonici. Anche in questo caso l'autore è presente come corpo, questa volta manifestato nella sua materialità anatomica. Ma anche questa illusione di certezza percettiva (come la certezza matematica della mappa) viene contraddetta, in questo caso dalla posa impossibile, ispirata alle pratiche contemplative degli esicasti – eremiti orientali che si chiudevano posturalmente e spiritualmente in se stessi per raggiungere il massimo grado di concentrazione e pace interiore – e dalla presenza della vescica e dei reni smisurati, immagine cristallina di purificazione organica e spirituale.
Aspettativa percettiva e soluzione straniante sono i due tempi su cui è costruita anche la macchina ottica posta in asse con la statua. Nell'aspetto esteriore il congegno ricorda le scatole stereoscopiche del tipo Mondo Nuovo. Guardando attraverso le lenti di questi antichi oggetti da fiera, ritratti anche nelle opere dei veneziani Tiepolo, le due immagini percepite separatamente dagli occhi si componenvano in un'illusione di profondità. L'effetto della macchina qui esposta è contrario: i nostri occhi vedono due video differenti e, poiché non avviene sintesi visiva tra questi, siamo chiamati a pensare alla diversità di elaborazione dell'emisfero destro e dell'emisfero sinistro del cervello. Uno dei due video è di Mainenti, l'altro è una rielaborazione di Atej Tutta, artista video e collega dell'autore.
Le opere in mostra intessono la trama di un discorso tra amici. A volte il discorso diviene azione tangibile, che lascia una traccia quasi violenta: è il caso dei disegni di David dalla Venezia, tagliati e ricomposti da Mainenti secondo strutture matematiche armoniche. Gli interventi di Mainenti in rapporto agli altri artisti agiscono con la forza centrifuga e centripeta del capo bottega rinascimentale, la cui energia creativa si nutriva delle menti che l'attorniavano, le quali a sua volta crescevano dell'arte da lui prodotta. Non a caso però il titolo della mostra è l'affermazione di una prima persona singolare.
Come spesso accade nei discorsi tra amici, alcuni temi tornano più volte, non per comporsi in un sillogismo definitivo, ma affiorando nel dialogo secondo volubili leggi di attrazione. Tra questi ricorre frequentemente la fascinazione per Ezra Pound.
Il morso della Parola Cane compone in un insieme di eleganza orientale, tanto cara al poeta, alcuni ricordi poundiani. Nella Sirena Bambina affiorano le sirene scolpite dai Lombardo negli anni ottanta del Quattrocento, che tanto avevano colpito la fantasia del poeta e ne avevano stimolato i ragionamenti sullo status della scultura. Il disegno a griglia della pagina accanto ricostruisce la parete della gabbia in cui Ezra Pound fu rinchiuso a Pisa come traditore dell'America durante la prigionia nel campo alleato dopo la Liberazione dell'Italia. Sopra alla gabbia si librano i caratteri giapponesi dell'haiku di Pound “Alla stazione della metro”.
Come avviene per Il morso della Parola Cane, altre teche di vetro espongono un taccuino aperto. Il disegno che ammiriamo nella sua perfetta calibratura si qualifica così come un appunto di una riflessione in itinere, della quale noi non vediamo che un momento, una pagina tra le altre. Sentiamo di perdere alcuni riferimenti, di penetrare solo parzialmente nel flusso di pensieri. Eppure la finitezza della realizzazione contraddice lo status di fase preliminare e frettolosa di elaborazione che associamo al taccuino di viaggio, ovvero crea un istante di immersione: ciò che osserviamo è solo un frammento di discorso, ma questo frammento è portato al suo stato di equilibrio perfetto.
In ogni opera esposta leggiamo questa tensione verso l'astrazione del sogno matematico trattenuta a terra dall'imperfezione insita in tutto ciò che è umano, dalla percezione del divenire e dal limite della materia. Ma questo contrappeso è vissuto come forza costruttiva da immettere nell'energia dell'opera. Ciò che ci trattiene a terra ci tiene vicini a noi stessi, ci porta a vivere nel cerchio materiale dei passi, dei luoghi, degli incontri.
È l'inattualità di questo pensiero nell'epoca delle reti virtuali (che come ogni pensiero inattuale può rivelarsi il più impellente) che fa di questo insieme di opere un progetto in cui ci si può specchiare o trovare qualcosa di noi stessi.
Ermanna Panizon
inaugurazione I stand exposed, foto di Fabrizio Giraldi
leggi dell'evento speciale 1: Atei Tutta
leggi dell'evento speciale 2: La chiave dell'ascensore