installazioni al rosa: emanuela marassi
massimo premuda intervista l'artista
MP (Massimo Premuda): Da molti l’opera ambientale Merzbau del tedesco Kurt Schwitters è considerata il primo esempio di installazione e dal Secondo Dopoguerra in poi questa tecnica, soprattutto con gli environment (ambienti), ha avuto una straordinaria diffusione presso gli artisti di diverse tendenze. Nasce dunque dall’estensione ed espansione del collage e della pittura, molto più che della scultura, e si orienta verso la creazione di interi ambienti, intesa come la dilatazione nello spazio dei quadri e aperta alla contaminazione con i nuovi media e le diverse forme d’arte. Anche la tua tensione e il successivo percorso verso l’installazione muovono i primi passi da questi stessi principi, interessi e necessità?
EM (Emanuela Marassi): La distruzione del cavalletto è stata la mia prima installazione e l’ho intitolata “Trasformazione in rosa”. E’ nata dall’esigenza di togliere al cavalletto (imperante in mezzo allo studio) il suo uso, ritenuto da me, in quegli anni, inutile, desueto e dargli un’altra possibilità, farlo diventare scultura, una “mia” scultura; dipingerlo di rosa e rivestirlo di pizzi, merletti e nastri. Era un periodo in cui “ero arrabbiata”, facevo ‘presa di coscienza’ con un gruppo di artiste amiche e mi sentivo sempre più in rivolta con il mondo anche grazie all’influenza di Cernigoj (già mio maestro da anni), del suo rigore, della sua grande personalità e del suo giudicare, con ferocia a volte, la mia voglia di libertà creativa. A questa installazione lavorai per giorni, senza farlo salire nel mio studio, volevo finire il lavoro senza subire sue stroncature.
Avevo dipinto delle bocche rosse e colanti: ne appoggiai una sul cavalletto e tutte le altre attorno. Riempii lo studio di tulle rosa e con questo fasciai tutto il lavoro.
Poi, a opera ultimata, chiamai Liliana D’Osmo, che mi fotografasse l’installazione.
Lei, bravissima, e molto divertita, mi fece delle splendide foto.
L’espressione sarcastica di Cernigoj, quando venne nello studio, si manifestò con feroce “Zucker Bäcker” (pasticceria).
Al contrario, io ero molto soddisfatta, non tanto per la riuscita del lavoro – in effetti mi sfiorava qualche dubbio – quanto per il coraggio che avevo avuto ad essere liberamente me stessa.
Beauty, 2007
6 elementi metallo cromato
cm 70x370x7
ph. Marino Ierman
courtesy Studio Tommaseo, Trieste
MP: nella tua lunga e ricca esperienza artistica hai affrontato diverse tecniche, dalle più tradizionali come disegno, pittura e scultura, ai media più attuali come fotografia, video e performance, fino ad insolite forme espressive, quali l’intarsio e il ricamo, declinate nel contemporaneo. Alla luce di quanto detto prima, cosa rappresenta per te l’installazione e perché hai scelto questa tecnica per le tue più recenti ricerche? La consideri forse una pratica più coinvolgente per lo spettatore?
EM : L’installazione è il prolungamento del mio pensiero, un racconto ampliato dove nel tutto ho la libertà di usare le tecniche e materiali più disparati, ma sempre rivolti al pieno risultato dell’operazione. Non penso allo spettatore, non è disinteresse o noncuranza, è un cercare di eludere possibili condizionamenti. Fondamentale è la conclusione, avvolta nella chiarezza del concetto.
MP: So che frequenti con regolarità alcune delle più importanti rassegne internazionali d’arte. Quale opera installativa, di cui hai potuto fare di recente una reale esperienza, ti ha maggiormente coinvolta, affascinata o emozionata?
EM : E’ vero, appena posso, cerco di visitare le mostre di rilievo anche all’estero. E’ giusto farlo nella volontà di un confronto. Sono molti gli artisti che amo e che “I’d like to be”…
Sicuramente mi affascina la grandezza di Vanessa Beecroft, o le opere di Christo che mi lasciano senza respiro e non posso nascondere di essere una fervente ammiratrice del gruppo “Irwin”, fin dall’inizio della loro formazione. Non posso non citare i video della Sociètas Raffaello Sanzio e lo stupore dell’ultima installazione video di Bill Viola nella chiesa di San Gallo a Venezia. Veramente sconvolgente e coinvolgente. E quindi: I’d like to be”…
Giornale, 1978
carta di riso, tulle e filo
cm 60×85
ph. Marino Ierman
courtesy Studio Tommaseo, Trieste
MP: Spesso le tue installazioni sono abbinate a delle performance. Come mai questa scelta? Per te è un’integrazione indispensabile?
EM : non lo credo, comunque non sempre. Ma, quando segui la tua naturale creatività, a volte può essere quasi inevitabile il concatenarsi degli eventi: può accadere allora che un abbinamento installazione-performance-video puntualizzi e – perché no – perfezioni il concetto, con un linguaggio diverso.
MP: la tua prima installazione è “Il cavaliere” del 1981. Spesso per questi lavori più articolati la tua ricerca è partita da elementi simbolici, ad esempio dalla mitologia greca o dalla favolistica europea. Per realizzare un’installazione bisogna dunque partire da una storia, da un racconto?
EM : “Il cavaliere” è stato un lavoro lungo e coinvolgente. Da poco avevo subito la perdita di mio padre e cercavo, durante l’esecuzione, di trovare nei miei ricordi e nelle mie emozioni, quale qualità fosse quella più consona a lui.
Fin da bambina vivevo di fantasia. Vivevo sognando. A scuola quando mi parlavano non rispondevo. Non sentivo proprio… e i bambini mi chiamavano ‘dormicchiona’.
L’idea del “Cavaliere” è nata per caso. E’ stata una cartolina di condoglianze speditami dall’Inghilterra. Vi era raffigurato un cavaliere con una croce e vi erano elencate le 36 qualità che questi doveva possedere per essere definito tale. Quell’immagine mi avvolse completamente e vidi già il lavoro compiuto. Mi aiutò a superare il lutto.
E’ qui che scattò lo spirito ironico che caratterizza molti dei miei lavori. Mi immagino come un’equilibrista sul filo dell’ironia e della poesia.
Rospirosa, 2007
installazione
moquette rosa, ceramica dipinta
dimensioni variabili
ph. Marino Ierman
courtesy Studio Tommaseo, Trieste
MP: Mi racconti qualcosa a proposito delle tue due nuove installazioni “Beauty” allestita al Museo Rivoltella e “Echo e Narciso” ospitata allo Studio Tommaseo? Da quale tipo di immaginario prendono spunto queste tue suggestioni?
EM : Beauty è parte integrante del “Cavaliere”. E’ la somma complessiva delle qualità da lui possedute. Le sei lettere di “Beauty”, specchianti, deformano l’immagine quando ti avvicini. Sono crude, gelide, taglienti. Irridono il nostro desiderio di bellezza. La mostra al museo si ispira ironicamente, con una serie di opere e di installazioni, proprio alla “Bellezza”, così come la mostra allo Studio Tommaseo “Echo e Narciso”.
Il mito di Narciso è legato alla bellezza del corpo, Narciso ama se stesso ma anche è amato dalla ninfa Echo. Un amore non contraccambiato ha un inevitabile esito finale ed Echo dalla disperazione si trasforma in pietra. Narciso innamorato della sua stessa immagine muore di consunzione e si trasforma in fiore. Un fiore che conduce agli inferi “Narkissos”. L’intensità del suo profuma ti “narcotizza”. Ho risolto questa installazione con una scultura e il suo negativo e poi…i narcisi…
MP: Sono dunque dei lavori inediti e site-specific. Ma per te, in fase di progettazione, quanto conta rispettare o stravolgere completamente lo spazio che andrà ad ospitare una tua installazione? Preferisci dunque assecondare la natura del luogo o alterarla radicalmente, rendendola illeggibile?
EM :E’ importante saper imporre allo spazio espositivo la tua idea, piegarlo, dilatarlo, restringerlo. Tutto si può. Devi usare sensibilità e concedere alla tua opera l’adeguato collocamento. In un qualsiasi allestimento ci sono delle regole che, con il tempo, impari: ogni opera ha bisogno della sua “solitudine”. A volte si può azzardare un allestimento “anacronistico”: se l’opera “c’è”, regge.
Senza titolo, 1994
tulle su metallo, specchio concavo e convesso
cm 40x40x35
ph. Marino Ierman
courtesy Studio Tommaseo, Trieste
MP: Infine vorrei da te una definizione sul tuo uso critico del colore rosa, sempre presente nelle tue installazioni e un tuo chiarimento riguardo alle tue affermazioni sull’origine androgina dell’arte.
EM :Il colore rosa è rassicurante. Piace. Ma perché piace e perché ci si vergogna di questa “debolezza” cerco di capirlo. Tutto qua: “Il Rosa”. Rosso più bianco o bianco più rosso. E’ il colore imposto alle bambine, il colore della panna nella torta, e il colore delle mucose.
“Voi la bocca rosata, e rosate le guance avete ancora” (Tasso). Mi interessa la seduzione del colore, il suo effetto su di me e sullo spettatore. E poi c’è “La Rosa”. Anche lei mi segue nelle mie creazioni da anni. Ti cito i titoli di alcune mie mostre: Trasformazione in rosa del ’77, Il Cavaliere, Aurora Musis Amica (AMA), Androgino Ginandro, Rosa Profondo, Uno fa da Rosaio altri da Rubarose, Unicuique Sua Rosa, Rose Esagerate.
E’ stato un percorso esoterico affascinante. Ogni mostra mi portava alla successiva per necessità.
I simboli erano i grandi veicoli conoscitivi che mi trascinavano con sé. La Rosa Alba, la Rosa Rubea, in alchimia. La Rosa Mistica che si bagna nel sangue della Croce. La Rosa dei Cavalieri Templari. La Confraternita dei Rosa Croce. La rosa della conoscenza esoterica. La Rosa Maria Figlia del Figlio, Rosa che regna nella Rosa del decimo cielo.
E infine, ma senza fine… “l’Aurora altro non è se non la simbolica ghirlanda di rose amate dal poeta”: non posso non citare con commozione Alfredo Cattabiani.
Ironia e poesia provoco e mi sento da queste provocata. Sfioro questi temi che sono rivolti all’uomo e alla sua incapacità di essere se stesso nel profondo, dove il maschile e il femminile si confondono e ognuno è “essere”. E’ in questo “essere” che io sento nascere e crescere l’Arte.