la mostra di alban muja a trieste
testo introduttivo di janka vukmir
Alban Muja, Tonys, 2010, photography, cm 70×100
Janka VukmirFrom brotherhood to brotherly love (*)
DALLA FRATELLANZA ALL’AMORE FRATERNO
Nato nel 1980 a Mitrovica, Alban Muja era un giovane uomo quando nel 1998 iniziò la guerra che avrebbe portato il Kosovo all’indipendenza. La storia, il contesto e la violenza del conflitto sono più che noti, ma chi era in Kosovo negli anni ’80 e poi di nuovo dopo l’indipendenza del paese, difficilmente potrebbe descrivere in poche parole la dimensione dei cambiamenti. Trovarsi a crescere durante una tale trasformazione epocale del proprio ambiente ha segnato la formazione di tutta una generazione di artisti cresciuti dopo la guerra in Kosovo.
Nelle diversità attuale delle circostanze, non solo di quelle di matrice politica – nonostante tutta la vita sia fortemente segnata da condizioni politiche – ma anche a tutti i più sottili livelli di intimità personale, familiare e micro-sociale e nelle sfide esistenziali, questa generazione di artisti è diventata internazionalmente forse lo strato più visibile della società del Kosovo e certamente il suo più eloquente comunicatore con il mondo. Si deve a ciò, in controtendenza con il trend europeo, se l’arte contemporanea e la Galleria Nazionale del Kosovo a Pristina ha visto nel 2013 un aumento atipico di bilancio pari al 20%, probabilmente anche grazie al buon governo della galleria allora diretta dal famoso artista Erzen Shkolloli. Così al tempo aveva riportato il New York Times, in occasione della prima presenza del Kosovo alla Biennale di Venezia del 2013. Oggi la situazione è “normalizzata”, e proprio ora, mentre prepariamo questa mostra, in Kosovo è in corso una grande discussione pubblica sul taglio molto consistente dei finanziamenti da parte del Ministero della Cultura, che va a colpire in particolare gli artisti contemporanei e le organizzazioni non governative.
Alban Muja è conosciuto come artista prevalentemente impegnato nella fotografia, nel video e nella performance. Nella nostra mostra si presenta anche come pittore. I disegni esposti alla grande mostra personale dello scorso anno alla galleria ŠKUC di Lubiana non fanno parte della presente esposizione. I lavori che qui vengono presentati sono stati creati in circa dieci anni e danno una visione d’insieme della continuità della ricerca di Alban. Le opere di Alban Muja si occupano prevalentemente dei fenomeni socio-culturali inerenti la transizione e la trasformazione del Kosovo contemporaneo, della sua fenomenologia, devianza e patologia, così come delle reazione umane, soprattutto di quelle individuali e quindi della collettività. Temi come il nominare e il rinominare sono un barometro simbolico dei cambiamenti storico-sociali sintomatici di questa regione “post-Est” e svolgono un ruolo importante nel corpus dei lavori di Muja. Muja ha un approccio ironico e umoristico agli argomenti che hanno un determinante risvolto politico e ai sintomi delle gravi conseguenze economiche dovute a questa situazione di transizione. L’individuo è visto come una conseguenza delle sue aspirazioni, convenzioni e abitudini sociali, e le aspirazioni e le pratiche sociali sono presentate in maniera discreta, quasi voyeuristica, con il fine di provocare una tensione percepibile tra le scene delle sue opere e la reazione critica del pubblico. Sullo sfondo di tutte le opere di Muja c’è un rapporto permanente con la creatività sociale, o “della gente”, l’estetica e l’attitudine verso il mondo dell’arte e della politica.
I suoi primi lavori presentati in questa mostra, i video Palestina (2005) e Tibet (2009), parlano del nominare. In un certo senso sono la continuazione della sua prima opera video Free Your Mind (2003), dove per tutta la durata del video Muja pronuncia i nomi di artisti (famosi), finché essi non si trasformano in ornamento o pattern e le parole si liberano totalmente di coloro a cui appartengono. Palestina e Tibet sono guidati da una logica inversa. Ognuno di questi video rappresenta una persona, una ragazza che si chiama Palestina e un ragazzo che si chiama Tibet. Sono giovani Kosovari nati negli anni ’80, che i loro genitori, con motivazioni personali diverse, hanno chiamato con i nomi di due paesi che mirano a perseguire l’indipendenza, nei quali identificavano i propri desideri per il futuro del Kosovo. I lavori di Alban sono umoristici, e lo spettatore, soprattutto se abita nella regione, potrebbe pensare che questo momento di nominazione sia un po’ surreale, al margine, come è una burla, ma in realtà esso è terribilmente serio. Su questa dose di umorismo in molte opere di Alban, queste incluse, vince tuttavia il momento umano: tutti riconoscono la loro poetica, il trucco personale per superare la frustrazione, per trasmettere al figlio il desiderio di prosperità, di un futuro migliore che per fortuna nel frattempo si è presentato.
Nel contesto della nominazione vengono prodotti anche dei lavori fotografici ed essi sono presentati in mostra. Tonys, fotografia del 2010, mostra, di fronte a una grande proiezione con l’immagine di Tony Blair, un gruppo di ragazzi coetanei, di dieci anni, che portano lo stesso nome. Tutti i ragazzi della fotografia si chiamano Tonibler. Naturalmente, il nome del primo ministro britannico è stato dato loro in segno di omaggio e gratitudine quando Tony Blair, sostenitore dei bombardamenti della NATO che influirono sulla soluzione della crisi della guerra, si guadagnò visibilità nazionale come salvatore delle vittime di una intera era politica. La serie di fotografie che compone l’opera del 2012 My name, their city mostra giovani uomini e donne del Kosovo che tengono in mano delle fotografie di città: sono le città albanesi alle quali ognuno di loro deve il proprio nome. Il desiderio di mobilità tra il Kosovo e l’Albania, a lungo agognato e reso possibile non molto tempo fa, è l’antefatto che ha portato, al tempo della dittatura socialista di Enver Hoxha durante la quale i confini erano chiusi, a dare ai figli questi nomi, che riflettono la frustrazione per la separazione di uno stesso popolo vissuta da entrambe le parti di quei confini invalicabili. Conoscendo le aspirazioni unioniste, naturalmente, il lavoro parla in maniera critica della situazione politica e delle reazioni sociali ad essa ed è quasi sovversivo, perché agisce a un livello intimo assolutamente personale e familiare, ma ha le conseguenze a lungo termine del potere dei simboli.
Anche il film Blue Wall, Red Door (2009) parla di nominazione, ma dal punto di vista della rinominazione, un fenomeno che ha segnato tutta la parte post-comunista dell’Europa. Qui Muja espone la sindrome della rinominazione delle strade di Pristina, dove dall’epoca jugoslava ad oggi i nomi delle strade sono cambiati così spesso che gli stessi cittadini non ne conoscono più i nomi correnti e micro-luoghi della città vengono indicati con descrizioni che si riferiscono all’arredo urbano presente, o a un locale esistente nella zona o agli indicatori di funzione e di scopo degli elementi urbani collocati o a simili soprannomi, il che ostacola non poco il movimento attraverso la città o il funzionamento dei servizi pubblici primari, come gli uffici postali, le ambulanze o i vigili del fuoco.
I lavori più recenti, realizzati tra il 2013 e il 2014, si differenziano per scelta tematica e in ragione delle loro strategie artistiche. Ciò è dovuto probabilmente alla maturazione personale dell’artista. Due video, che ora non durano più 3 -5 minuti, ma 15, parlano di migliori condizioni di lavoro, che Muja ha raggiunto in parte grazie alla sua visibilità internazionale e alla sua maggiore mobilità, nonostante i problemi che si devono affrontare viaggiando con un passaporto rilasciato in Kosovo.
Germans are bit scared of me, del 2013, è un cortometraggio in cui l’autore segue un giorno della vita di un personaggio pittoresco a Mitrovica, che vive con la moglie e cinque figlie e per sopravvivere va a caccia dei passanti e di altre persone interessanti, tra cui i soldati delle Nazioni Unite di base in città. Il protagonista è davvero molto simile a Hitler e ogni mattina si prepara per somigliare quanto più possibile a questa immagine e va in strada per cercare di guadagnare qualche soldo. La videocamera di Muja lo segue con discrezione nelle diverse situazioni, quando incontrano persone che conoscono chi è il personaggio che interpreta, o, a volte, ed ha dell’incredibile, persone che non sanno chi è. La situazione è così insolita che lo spettatore mentre guarda il film si chiede se è veramente possibile, e il film stesso gioca la propria tensione sul filo dell’incredulità e restituisce una documentazione che è la concreta strutturazione artistica dell’opera.
Un altro video, Legendary Dog, del 2014, è la storia di un’azione (simbolica) eseguita da Ulay sul confine tra Kosovo e Albania nel 1977, quando viaggiava attraverso la Jugoslavia con Marina Abramović. Da quel viaggio, fatto in parte anche con Tomislav Gotovac, ritornarono ad Amsterdam con un cane, un pastore illirico, che visse con loro i successivi 14 anni, anche nel noto periodo della loro vita che passarono in un furgone, e che anche condivise il loro viaggio attraverso la Jugoslavia. Per Muja questo frammento della vita di Ulay con Marina è importante perché tratta una situazione che, se pur personale, rispecchia la questione kosovo-albanese, che l’artista indaga anche in altre sue opere.
E, infine, l’immagine Brotherhood (2015), un olio su tela del 2015 che mostra una fila di case – queste abitazioni monofamiliari hanno dimensioni di tutto rispetto – che i padri secondo gli usi locali costruiscono per lasciarle ai figli.
Spesso ciò che si desidera è troppo ambizioso e le successive case costruite per i fratelli minori, rimangono completate a metà, in costruzione o non finite, e l’architettura è malfatta, come accade quando si arrangia di modernizzarla alla bell’e meglio. Da questa serie di dipinti, ne scegliamo uno, quello con sette case per sette fratelli. Come avviene in tutte le altre opere selezionate per questa esposizione, anche in esso sono indagati e discussi i cambiamenti sociali avvenuti in Kosovo e da qui deriva il titolo della mostra: From brotherhood to brotherly love.
(* ) La mostra a Trieste, allo Studio Tommaseo [06.06 – 22.07.2015], è la prima personale in Italia di Alban Muja. E’ realizzata in co-produzione dall’Istituto per l’Arte Contemporanea di Zagabria e da Trieste Contemporanea e si avvale della collaborazione del MMSU-Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Rijeka.