a cura di Trieste Contemporanea Zsolt Petranyi (Mucsarnok - Budapest, Ungheria): E’ stato interessante essere qui e ascoltare ciò che è stato detto dai vari curatori. Per quanto riguarda la gestione dell’arte in Ungheria, negli ultimi anni l’amministrazione culturale ha posto grande enfasi sulla tradizione culturale ungherese tuttavia la maggioranza di coloro che lavorano nel campo dell’arte si sentono abbastanza estranei da questo problema, principalmente perché sappiamo che si tratta di una questione di natura sostanzialmente politica che non tocca realmente il nostro lavoro quotidiano nel campo dell’arte contemporanea. Esiste, invece, a nostro avviso un problema più serio, che è lo stesso sollevato dalla curatrice romena: perché alla neo acquisita abilità comunicativa che informa il Mucsarnok non viene attributo alcun peso in campo politico? Il nostro paese desidera far parte dell’Unione Europea e crediamo che l’arte contemporanea possa essere un ottimo mezzo di comunicazione per provare che la nostra cultura è assolutamente eguale a quella dell’Europa Occidentale. Eppure, continuiamo ad avere difficoltà a raccogliere fondi e ci troviamo a discutere costantemente con il Ministero della Cultura che, avendo una formazione di tipo economico e un approccio eminentemente politico all’arte e alla cultura, vuole attribuire a queste ultime una funzione sociale assoggettandole a principi “democratici”. Ciò è chiaramente in antitesi con lo scopo dei curatori che è quello di selezionare e portare alla luce ciò che c’è di veramente importante e significativo nella nostra arte. Il secondo punto sull’agenda del forum riguardava la salvaguardia dell’identità culturale e il fenomeno dell’internazionalismo. Credo che questo problema sia particolarmente sentito nei paesi che hanno una posizione di confine in Europa perché gli artisti cresciuti in questi paesi hanno sempre guardato ai centri e alle accademie dell’Europa Occidentale per assorbirne lo stile e importarlo nel proprio paese. Le nostre giovani generazioni di artisti desiderano partecipare al dialogo internazionale sull’arte contemporanea e sentono che l’unico modo per farlo sia quello di utilizzare lo stesso linguaggio e di creare opere che siano perfettamente compatibili e comprensibili al pubblico del mondo dell’arte internazionale. Quando poi, noi curatori specialmente, andiamo in Europa, scopriamo che invece molti artisti occidentali, i danesi per esempio, lavorano su problematiche molto specifiche, radicate in contesti particolari o addirittura locali. Nessuno di noi sente di avere la “forza” o la possibilità di fare lo stesso…noi continuiamo a spingere verso l’esterno! D’altra parte credo che l’interesse che l’occidente sta ora dimostrando nei confronti dell’est sia molto importante per noi: occasioni quali il “Manifesta” di Ljubljana offrono agli artisti, anche dell’est, la possibilità di concentrarsi sulle proprie specifiche situazioni. Sirje Helme (Center for Contemporary Art, Estonia): La questione dell’arte in occidente è un argomento sul quale ho riflettuto a lungo e credo che l’immagine dell’occidente agli occhi dei sovietici, inclusi gli estoni e gli ucraini, fosse molto lontana dalla realtà; l’arte e la società occidentale così come noi la immaginavamo non è mai esistita. Era piuttosto una specie di sogno virtuale nell’immaginario sovietico, tenendo ben presente che la nostra società era molto chiusa e quindi molto diversa da quella ungherese, polacca, ecc. Gli artisti dell’est, nel loro sogno, immaginavano che l’arte occidentale avesse a disposizione danaro, istituzioni, materiali di qualità, gallerie, insomma tutto. I critici d’arte dell‘est, d’altro canto, avevano un proprio sogno sul cosiddetto mondo dell’arte e cioè che un bravo critico che scrive molto bene avrebbe visto i propri lavori pubblicati sempre e ovunque, che si potesse dire la verità senza essere vittima di giochi politici. Almeno la metà delle difficoltà che si sono verificate all’inizio degli anni 90 sono derivate dall’infrangersi di questo sogno contro una realtà che era molto diversa dalla nostra immagine virtuale. Potrebbe addirittura essere l’argomento di una ricerca finalizzata: che cosa rappresentava l’occidente nella nostra immaginazione. Perché tutto ciò che faceva l’avanguardia artistica estone si basava su un’immagine mai realmente esistita ma nella quale noi credevamo come alla bibbia. Non è che con questo io voglia criticare il mondo occidentale, infatti credo che anche i paesi dell’est fossero “virtuali” agli occhi degli occidentali. Mi sorprendono sempre molto i cliché sugli artisti e gli scrittori dell’est Europa. Trovo sempre interessante e stimolante confrontare le rispettive percezioni e questa è un’ulteriore occasione per confrontarmi con le opinioni di altri su questo argomento per esempio quale era la vostra percezione in Ucraina? Jerzy Onuch (Center for Contemporary Art - Kiev, Ucraina): Trovo che ciò di cui state parlando sia molto interessante, specialmente quando vedo sedere attorno ad un tavolo un gruppo di persone provenienti dai paesi dell’Europa centro-orientale che sono in procinto di entrare nell’Unione Europea. Io vengo da un paese che è il secondo più grande d’Europa, l’Ucraina, la più grande società post-coloniale in Europa, ma che non può nemmeno sognare di entrare nell’UE per almeno altri venti se non trent’anni, sempre ammesso che riesca a sopravvivere come paese e come nazione. Il mio caso personale è abbastanza rappresentativo della società in cui vivo e delle regole che la governano. Quella ucraina è una società di stampo ancora fortemente sovietico, in sostanza nulla è cambiato. Si tratta di un paese virtuale che imita una vera nazione, con un parlamento che non è un parlamento, un governo che non è un vero governo e un presidente accusato di attività criminali…eppure in confronto alla Bielorussia o alla Moldavia siamo una società abbastanza democratica. Più o meno un anno fa ho cominciato a preparare la presentazione degli artisti ucraini alla Biennale di Venezia. Tutto si è svolto senza grandi problemi fino a quando il settanta per cento circa del lavoro era concluso, poi la nomenklatura post-sovietica ha stabilito che da lì in poi spettava a lei prendere le decisioni e quindi adesso un nuovo gruppo di artisti rappresenta l’Ucraina alla Biennale. Ciò che mi sembra più grave è che alcuni di questi artisti sono abbastanza famosi e non sono degli artisti mediocri ma hanno deciso di affiliarsi alle forze più conservatrici in Ucraina pur di partecipare a questa Biennale, il che significa che i membri di una società post-coloniale, come l’Ucraina, sono pronti a tutto pur di essere presenti in questa parte “migliore” d’Europa. Il fattore arte è in questo caso del tutto marginale e quindi mi domando come una società di questo tipo continuare ad esistere ed evolversi e quale possa essere il ruolo dell’arte e degli artisti all’interno di essa. Il problema mi sembra non sia tanto cosa fanno gli artisti che comunque seguono il proprio percorso, ma piuttosto quali mezzi possono essere messi a loro disposizione per promuovere gli scambi di esperienze e da dove debbano provenire: da un’avanzata politica culturale del governo o da nuove realtà private? Zsolt Petranyi: Credo che la tua domanda abbia due aspetti distinti: una è la questione finanziaria interna ai nostri paesi e l’altra riguarda le attività internazionali, come la partecipazione alla Biennale di Venezia. Per quanto concerne il primo aspetto della questione, credo che debbano esserci tanto i finanziamenti ministeriali quanto le sponsorizzazioni dal settore privato perché la situazione economica dei nostri paesi non è ancora tale da consentire al Ministero della Cultura di allocare alla cultura finaziamenti sufficenti a farci sopravvivere senza bisogno di altri fondi. Il fatto è che le nostre economie nazionali non sono ancora a quel livello, né lo è il settore privato, e quindi non sono in grado di sponsorizzare l’arte. La questione viene costantemente discussa e stiamo valutando tutte le possibilità ma siamo anche consapevoli che queste aziende stanno ancora lavorando per sopravvivere in questi primi e duri anni di adattamento all’economia internazionale e non si può chiedere loro di pensare all’auto-promozione. E’ un processo che deve avvenire passo per passo. Se poi ci si vuole chiedere come questa situazione si rifletta nella Biennale di Venezia, allora penso che le circostanze varino da padiglione a padiglione. Quest’anno per esempio la situazione del padiglione ungherese è piuttosto buona dal momento che il Ministero della Cultura ha finanziato il 100% della mostra ma sono sicuro che se la curatrice del padiglione Romeno fosse qui, direbbe qualcosa di molto diverso… Sirje Helme: Credo che in Estonia la situazione del settore privato sia sostanzialmente la stessa, non possiamo aspettarci che siano in grado di sponsorizzare l’arte. Certo lo hanno fatto in qualche occasione ma ciò non è significativo. Per rispondere alla tua domanda su chi debba decidere e pagare, direi che in una situazione ideale il governo dovrebbe semplicemente fidarsi delle istituzioni artistiche. In altre parole, quando noi decidiamo di organizzare un evento, troviamo i partner e realizziamo il lavoro, il governo dovrebbe fidarsi del nostro giudizio e fornire il danaro. Per quanto riguarda la Biennale di quest’anno, la mostra è finanziata in parte dal Ministero della Cultura e in parte da fondi destinati alla cultura che vengono gestiti da un’organizzazione privata ma che derivano dagli introiti delle lotterie, delle tasse sulle sigarette e sull’alcool. Queste entrate sono abbastanza consistenti e vengono assegnate non solo alla cultura ma anche ad altri progetti. Una volta che questi fondi vengono assegnati il finanziamento non può essere revocato, indipendentemente da chi va al potere. In questo senso si tratta di un sistema molto democratico e ben consolidato che inizia con un concorso per selezionare il curatore o il team curatoriale e/o gli artisti la cui giuria proviene sempre da istituzioni diverse e includono un paio di specialisti e un rappresentante dall’edizione precedente della Biennale. Quindi non vengono esercitate pressioni politiche su queste selezioni? Sirje Helme:Assolutamente no, infatti il rischio più probabile è piuttosto che, essendoci così tanti interessi diversi fra le persone che siedono attorno al tavolo decisionale, in maggioranza artisti, specialisti e critici, per soddisfare democraticamente le richieste di tutti la soluzione scelta vada a scapito della qualità. E il risultato di queste selezioni viene percepito come rappresentativo dell’immagine della nazione o a questo fine il semplice fatto di partecipare alla Biennale risulta sufficiente? Sirje Helme: Credo che l’idea di base rimanga che siamo qui per rappresentare l’Estonia come nazione ma anche che per farlo dobbiamo selezionare l’arte migliore che riusciamo a trovare. Punto e basta. Zsolt Petranyi: Per ritornare alla questione economica, vorrei che nessuno pensasse che il nostro messaggio, in qualità di curatori dell’est, è che l’occidente deve compatirci, perché se non procediamo è solamente colpa nostra. Quando parliamo di sponsor, c’è il problema della mancanza di esperienza nel relazionarci con i nostri sponsor e nel gestire i vari aspetti della comunicazione fra il mondo culturale e quello economico all’interno di un sistema capitalistico. Credo sia inevitabile che mano a mano che familiarizziamo con questo sistema economico, impariamo anche ad operare nel campo culturale e a illustrare alle persone il nostro panorama artistico. A proposito di quest’ultimo punto, avete registrato un incremento nell’interesse del pubblico nei confronti dell’arte contemporanea in questi ultimi anni? Jerzy Onuch: Posso fornirvi delle cifre se volete, dal momento che dirigo il Center for Contemporary Art a Kiev. Tuttavia, dovete tener presente che nei paesi post-sovietici il concetto di arte contemporanea è quasi del tutto nuovo. Mentre in paesi come la Polonia, l’Ungheria e anche la Cecoslovacchia, questo concetto, seppure oppresso, già esisteva, nel nostro paese abbiamo potuto cominciare a pensare a una cosa chiamata arte contemporanea solo con l’avvento della perestroika. Quindi quando aprimmo il Centro a Kiev nel 1995, si trattò di un fenomeno del tutto nuovo. Ci sono voluti quattro anni per raggiungere i 25.000 visitatori annui e lo scorso anno l’affluenza è stata di 40.000 persone. Ovviamente queste cifre devono essere contestualizzate (considerate che il nostro Museo Nazionale d’Arte viaggia su cifre simili). Il nostro pubblico è costituito da giovani sotto i trent’anni e se vogliamo sostenere l’arte contemporanea in futuro dobbiamo coltivare un pubblico specifico. E come viene finanziata l’arte contemporanea in Ucraina? Jerzy Onuch: In un paese grande come l’Ucraina, che ha più di 50 milioni di abitanti, non c’è una sola istituzione di arte contemporanea che venga finanziata dal governo. Il nostro a Kiev è l’unico Centro per l’Arte Contemporanea ed è ora finanziato per il 30% dalla Fondazione Soros mentre per il rimanente 70 % del budget dobbiamo arrangiarci. Se si pensa che il finanziamento della Soros diminuisce di anno in anno, non so cosa succederà in futuro. Zsolt Petranyi: Vuoi dire che non avete alcuna possibilità di ottenere finanziamenti dal Ministero della Cultura? Jerzy Onuch: No, non come ONG (Organizzazione Non Governativa) perché secondo una legge nazionale il Ministero della Cultura può finanziare solamente istituzioni fondate dal Ministero stesso e non enti che non siano sotto il controllo statale. Ma allora dove riuscite a trovare i fondi per le vostre attività? Da organizzazioni internazionali, da istituzioni private o da entrambe? Jerzy Onuch: Ora come ora il 50% delle nostre mostre sono ucraine e 50% sono di provenienza internazionale ed è su queste ultime che realizziamo un guadagno visto che sono quasi interamente finanziate dagli enti di provenienza o da corporazioni. La mostra attualmente in corso ha il supporto dalla Camera di Commercio Americana e il contributo finanziario dell’Ambasciata Americana. Tuttavia a livello locale la situazione è molto più difficile perché in Ucraina non esiste il concetto della sponsorizzazione “d’immagine”, ovvero sponsorizzazioni private finalizzate a pubblicizzare il contributo delle aziende all’arte o alla cultura. Quando tentiamo di avvicinare gli sponsor corporativi ci vengono rivolte domande sulla qualità e la quantità di affluenza prevista e comunque tutte le trattative devono passare per le agenzie pubblicitarie e di PR per poi risolversi in nulla. Zsolt Petranyi: Credo che ciò che si è menzionato ora a proposito della possibilità di collaborazioni sia estremamente importante perché la nostra esperienza in Ungheria è molto simile: quando ospitiamo mostre internazionali si tratta sempre di mostre già esistenti, ovvero prediamo quello che già c’è e nel passato lo abbiamo fatto molto spesso, per esempio ospitando la mostra “Liquid Crystal Future” da Edimburgo. Ora però ci troviamo a riflettere criticamente sul ruolo dell’AFAA, dell’IFA e del British Council nella cultura dell’est Europa perché queste mostre sono quasi sempre finanziate da questo tipo di enti che accettano di prendersi carico degli oneri ma sicuramente non in termini di vera collaborazione. Sfortunatamente la possibilità di collaborazioni vere è anche legata a questioni di tipo economico dal momento che non possiamo organizzare collaborazioni con istituzioni dell’Europa occidentale a meno che si sia in grado di dire oggi ai nostri partner occidentali quanto danaro potremo investire nella coproduzione di una mostra l’anno prossimo. Il problema è che io non sono mai in grado di dire oggi quanti fondi potrò raccogliere per il prossimo anno. Trovo tutto ciò molto frustrante ma devo dire che mi rincuora molto vedere che in Polonia la situazione è molto più evoluta visto che ci sono ora esempi di istituzioni polacche che cooperano direttamente con gli artisti per produrre mostre che poi possono esportare in altri paesi. Penso siano riusciti a stabilire un ottimo modello di cooperazione di cui esistono vari esempi in questi ultimi anni, basti pensare alla grande mostra di Harald Szeeman alla galleria Zacheta….. Ma si è rivelato un vero disastro! Zsolt Petranyi: da un certo punto di vista sì ma dal nostro punto di vista trovo molto significativo che László Beke (precedente direttore del Mucsarnok) avesse pensato di chiedere a Harald Szeeman, che conosce bene, di portare alla nostra Kunsthalle una mostra senza precedenti ma, non appena ha avuto questa idea ha scoperto che la Polonia la stava già organizzando. D’altra parte c’è da dire che per gli ultimi trent’anni la Polonia ha rivestito un ruolo di primaria importanza nell’arte e venti o trent’anni fa quando un artista ungherese sentiva di non avere possibilità in patria prendeva il treno e andava a Varsavia a contattare artisti polacchi per avere informazioni sull’arte contemporanea. Jerzy Onuch: Si, ma bisogna anche tener conto del fatto che la Polonia ha almeno un paio di istituzioni, come la Zacheta Gallery e l’Ujazdowski Castle, che ricevono dallo stato un discreto finanziamento anche se ovviamente non sufficiente. Zsolt Petranyi: Non solo, la Polonia ha anche la fortuna di avere non uno (Varsavia), ma vari buoni centri per l’arte, come Danzica, Cracovia, Lodz, ciascuno con ottime istituzioni. Il mio paese ha praticamente un solo centro in questo senso, Budapest. Pensi che non sia possibile allestire una mostra di un artista ungherese sconosciuto ma molto bravo, piuttosto che di un famoso artista internazionale, ed esportarla in altri paesi? Zsolt Petranyi: Ci abbiamo provato. Negli anni 70 e 80 era attivo un artista ungherese molto influente, Miklós Erdèly, che è di fatto il padre della nuova generazione e László Beke provò ad allestire una retrospettiva itinerante ma sia accorse che nessuno lo conosceva. Alla fine è una questione di affluenza; volendo la mostra può essere portata in occidente ma i direttori di queste istituzioni sanno che nessuno verrà a vederla. Per questo penso sia importante pensare a una situazione in cui lavorano assieme due estoni, due ungheresi e tre austriaci, diciamo, con un tema comune che trasmetta il messaggio che condividiamo gli stessi problemi e che siamo allo stesso livello pur mantenendo le nostre piccole differenze. Sirje Helme: Ho appena visitato una mostra a Zagabria, al Museo di Arte Contemporanea, allestita da un curatore croato. E’ un ottimo lavoro e sono riusciti a esportare la mostra in Slovenia, a Ljubliana, e in una galleria a Innsbruck. Sembra abbiano anche un accordo preliminare per farla viaggiare in Europa, ma ovviamente avranno bisogno di sostegno finanziario, per esempio dalla Fondazione APEX che è collegata alla Fondazione Culturale Europea, per coprire le spese di trasporto che sappiamo essere molto alte. Forse un altro aspetto importante è quello di costruire una storia comune dell’arte contemporanea perché credo sia inamissibile che si sappia tutto di artisti francesi e tedeschi e assolutamente nulla dell’arte baltica. Non pensate che l’Unione Europea dovrebbe avere anche questo obiettivo nei suoi programmi? Sirje Helme: Sai, Anda Rottemberg (all’epoca direttore della galleria Zacheta di Varsavia) ha organizzato una mostra sugli artisti di paesi baltici nel 1995 e ha provato a esportarla in altri paesi. La mostra era dedicata al periodo storico tra il 1945 e il 1990 in modo da offrire un quadro generale di quello che era stato fatto. Eppure sembra essere molto difficile ottenere qualsiasi tipo di attenzione. Zsolt Petranyi: Due anni fa ho partecipato, assieme a un gruppo di curatori, a un progetto intitolato “America doesn’t like me” (“All’America non piaccio” n.d.t.), una mostra fotografica dedicata ai paesi dell’Europa orientale che doveva sollevare tutta una serie di questioni storiche ed etniche legate al tema centrale della percezione dell’occidente. Tuttavia ad un certo punto decidemmo di non procedere, di fermarci. Perché? Zsolt Petranyi: Perché quando riflettemmo sugli esiti di una mostra di questo tipo ci rendemmo conto che era troppo tardi, che “l’epoca della foto” era probabilmente finita e che l’esotismo est europeo era un’ulteriore trappola… Sirje Helme: Tuttavia la questione non può essere evitata, lo si vede ovunque, esiste che piaccia o non piaccia. Credo comunque che questa idea della cooperazione possa offrire una vera possibilità. Se storici e curatori riuscissero a iniziare a operare a questo livello sarebbe forse possibile cominciare ad avanzare delle richieste concrete di denaro alle istituzioni che hanno questo tipo di priorità nelle loro politiche culturali. |
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