di Giuliana Carbi Nel nuovo scenario tutto occidentale, nel quale anche nella promozione dell’arte contemporanea per acquisire riconoscimento e consenso conta sempre più pesantemente la rete delle relazioni internazionali, l’affacciarsi di espressioni artistiche provenienti da paesi “neofiti”, è infatti un salutare punto di partenza per riflettere sulla pericolosità dello slittamento che richiede la massima “efficacia” di presenza sulla scena artistica internazionale anche a scapito della “sostanza” del discorso artistico stesso. Mantenere questo livello di presenza al passo gigante della globalizzazione, comincia a richiedere risorse paradossali che cominciano a creare difficoltà anche ai potenti accertati del sistema dell’arte - i grandi mercanti e collezionisti e i curatori di grandi musei - costretti a consorziarsi, farsi il restyling, potenziarsi a dismisura, trovare sponsor sempre più ricchi, siano essi le multinazionali o i grandi finanziamenti governativi. Uno spreco di risorse che finisce per agire proprio a discapito dell’autenticità del nuovo. Confrontarsi dunque con le difficoltà che incontrano i “giovani” paesi dell’est - soprattutto per la mancanza di sufficienti strutture e risorse pubbliche e private (pesa ora sulla bilancia anche la progressiva dismissione dei centri Soros e la loro difficile ricostituzione pubblica) - sia in termini di “accesso” al sistema, cioè di promozione esterna in paesi occidentali (che, se va bene, accettano per curiosità esotica di mostrare nei musei grandi autori da loro sconosciuti), che in termini di “accoglienza coatta” in patria di grandi mostre internazionali; vagliare le, scarse, opportunità progettuali, spesso politicamente imposte, che i singoli governi stanno aprendo, non ancora abituati all’arte contemporanea al punto che certe nazioni non posseggono a tutt’oggi un museo d’arte contemporanea; osservare le nuove intraprese private troppo poco consolidate per poter agire come sponsor americani; verificare la strana miscela di pubblico e privato creatasi per necessità; riscontrare i disagi dei curatori indipendenti che devono vestire più ruoli interlocutori; traguardare ai bisogni le opportunità, ancora troppo generiche, offerte dall’Unione europea; essere però anche testimoni del “germogliare” di un pubblico specifico, di un generale svegliarsi sorpreso ma positivo; tutto questo e altro ancora sono stati argomento del dibattito. Da esso sono emerse alcune proposte progettuali importanti, condivise da più curatori: questo è un segnale che proietta da questo mondo orientale una grande vitalità e positività sulla auspicabile abolizione delle barriere tra arte ricca e arte povera nel prossimo futuro. Da alcune riflessioni infatti si è potuto intuire che anche per l’arte bisogna cominciare a parlare di “sostenibilità”. Così come per l’ambiente. La corsa mondiale alla preminenza di posizione e al monopolio culturale infatti ha da essere rallentata e devono invece essere ridiscussi i fondamenti della politica culturale pubblica. Tra i primari obiettivi di questa riconversione dovrebbe trovare consistenza un equilibrato programma comune di divulgazione e educazione che raggiunga tutti i soggetti e dia spazio alla complessità delle loro esigenze culturali (nel numero precedente della rivista si è dato conto del dibattito internazionale che è in atto per arrivare ad una definizione comune di “bene culturale”). Dovrebbe anche essere incrementata la dotazione di risorse per i progetti culturali che attuano una reale ricognizione integrata sugli esiti nei diversi paesi dell’arte contemporanea (e del passato): dovrebbe in altre parole essere garantita alla ricerca la possibilità di esprimere rilevanza culturale, piuttosto che ad altre scelte avvallate secondo il parametro del loro “peso” immediato in termini di appeal sulla scena internazionale (una preminenza questa che non è del tutto equivalente alla rilevanza). |
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